Parliamo di un argomento purtroppo sempre più all’ordine del giorno e che spaventa forse più del cancro, le malattie neurodegenerative: una delle cause più frequenti di invalidità e mortalità, in rapido incremento in tutto il mondo. Malattia di Alzheimer e di Parkinson sono le più note, ma l’elenco è lungo e terribile.
L’Alzheimer, che rappresenta dal 60 all’80% di tutte le demenze, affligge globalmente almeno 24 milioni di persone e negli ultra 85enni colpisce fino al 50% della popolazione negli Stati Uniti e al 22% in Europa. Si stima che entro il 2050 ci saranno 160 milioni di persone nel mondo affette da Alzheimer. In parte questo è legato all’invecchiamento della popolazione, in associazione a fattori genetici predisponenti; è tuttavia chiaro che queste cause da sole non possono giustificare un’epidemia in costante peggioramento. Un discorso simile vale per le patologie neurologiche di origine autoimmune, sclerosi multipla in primis, che ha incidenza massima in Nord Europa e Nord America e che non è correlata con l’età; gli studi sulle migrazioni dimostrano che passando da aree a basso rischio ad aree ad alto rischio aumenta la frequenza della malattia, suggerendo come il fattore ambientale sia preponderante rispetto a quello genetico.
Dale Bredesen, neurologo americano considerato uno dei massimi esperti del processo di invecchiamento cerebrale, ha studiato a fondo la genesi dell’Alzheimer e conclude che va ricondotta a tre tipi di minacce:
- Infiammazione (legata a infezioni, alimentazione, stile di vita, stress)
- Carenza di nutrienti, ormoni e molecole necessarie al corretto funzionamento cerebrale
- Sostanze tossiche come metalli o biotossine (funghi, muffe).
Il suo gruppo di ricerca ha messo a punto un programma chiamato ReCODE (Reversal of Cognitive Decline), un protocollo che si è dimostrato capace di ottenere la regressione del deterioramento cognitivo nelle condizioni di Alzheimer e pre-Alzheimer. Secondo i loro studi, la placca amiloide associata alla malattia non è la causa del danno neuronale, ma al contrario fa parte di un meccanismo di difesa nei confronti delle aggressioni. Infatti, i farmaci messi a punto per distruggere l’amiloide non solo non determinano miglioramenti della patologia, ma spesso addirittura la peggiorano. L’Alzheimer e le altre forme di declino cognitivo secondo Bredesen sono una corretta risposta difensiva del cervello alle aggressioni, che in genere è efficace e porta a respingerle. Il problema interviene quando le aggressioni sono croniche e molteplici: in questo caso la risposta del cervello fa sì che il meccanismo di protezione porti invece all’insorgenza di danni. Pertanto, trattare e prevenire la neurodegenerazione implica identificare e rimuovere i fattori che ne sono all’origine e solo in seguito eliminare l’amiloide, poi ricostruire le sinapsi (connessioni fra neuroni) che la placca ha danneggiato.
Le minacce alla salute del sistema nervoso sono molteplici e rimando all’eccellente libro di Bredesen “La fine dell’Alzheimer” chi volesse approfondire. Per quanto ci riguarda, vediamo invece come l’alimentazione ci può aiutare a mantenere in forma la nostra materia grigia.
C’è in letteratura un consenso pressoché unanime sul ruolo straordinario della chetosi, sia indotta dal digiuno che dalla dieta, nella neuroprotezione. Nel corso dell’evoluzione, infatti, gli individui il cui cervello funzionava meglio in una situazione di digiuno acquisivano un vantaggio, poiché erano in grado di procacciarsi più efficacemente il cibo e quindi erano vincenti sia sul piano della sopravvivenza che della riproduzione. Quando avviene il cambio metabolico di carburante fra il glucosio e i corpi chetonici, derivati dai grassi, nelle reti neurali del cervello si verificano degli adattamenti che ne aumentano la funzionalità e la resistenza a stress, danni e malattie. Il neuroscienziato Mark Mattson della Johns Hopkins University di Baltimora, uno dei maggiori studiosi di patologie neurodegenerative, ha evidenziato molti meccanismi tramite i quali i chetoni migliorano l’efficienza del sistema nervoso: aumentano la neurogenesi, favorendo la differenziazione di nuovi neuroni dalle cellule staminali e aumentandone le connessioni reciproche; migliorano il tono GABAergico, che induce calma e rilassamento, incrementano la sintesi del fattore neurotrofico derivato dal cervello (BDNF), il principale fattore di crescita neuronale, stimolano e attivano la funzione mitocondriale. Ha anche dimostrato in modelli animali come il digiuno acceleri il recupero della funzione motoria dopo un trauma cerebrale o midollare o dopo un’ischemia.
Le diete chetogeniche sono state messe a punto nei primi decenni del secolo scorso proprio per la terapia delle epilessie, ma è solo con gli studi recenti che si è visto il loro ruolo neuroprotettivo, il cui meccanismo è simile a quello del digiuno. Vari lavori hanno dimostrato infatti notevoli miglioramenti nella scala di valutazione dei disturbi del Parkinson, nella funzione cognitiva nell’Alzheimer e anche nei bambini autistici. La dieta chetogenica si è anche dimostrata capace di rallentare la progressione del deficit motorio e la perdita di motoneuroni in un modello sperimentale di sclerosi laterale amiotrofica in ratti transgenici.
Il meccanismo fondamentale sembra essere l’effetto dei chetoni a livello mitocondriale, che comporta diminuzione delle specie reattive dell’ossigeno e aumento dell’efficienza metabolica. In parte però la neuroprotezione fornita dalla dieta chetogenica è anche dovuta alla ricchezza di grassi, in particolare polinsaturi, che proteggono i neuroni dai danni traumatici e ischemici. Ma c’è un altro importante fattore in queste diete che determina i miglioramenti a livello neurologico, ed è la drastica riduzione dell’apporto di carboidrati.
Infatti, al contrario di quello che recitava una vecchia pubblicità, il nemico pubblico numero uno del cervello è proprio lo zucchero, tanto che fin dal 2005 è stato proposto di classificare l’Alzheimer come diabete di tipo III. Si è visto infatti che alterazioni del funzionamento dell’insulina e del fattore di crescita insulino-simile (IGF) a livello cerebrale sono presenti fin dall’inizio della malattia e peggiorano progressivamente, spiegandone le lesioni molecolari, biochimiche e istopatologiche. Anche in animali di laboratorio si può indurre una sindrome simile provocando un diabete artificiale e farmaci utilizzati per trattare il diabete migliorano la funzione cognitiva.
Moltissimi studi dimostrano come la resistenza insulinica sia uno dei meccanismi che favoriscono il deterioramento cerebrale; sappiamo infatti che l’insulina è un ormone anabolizzante, che favorisce l’infiammazione, la formazione delle placche di amiloide e aumenta lo stress ossidativo. Alti livelli di insulina si associano a scadenti prestazioni cognitive e declino della memoria anche a prescindere dal livello della glicemia.
Peraltro, tutte le ricerche dimostrano che il diabete arriva a raddoppiare il rischio di patologia neurodegenerativa. Alti livelli glicemici inducono la formazione di AGE (prodotti finali della glicazione avanzata): quando ci sono grandi quantità di carboidrati disponibili, questi si legano alle proteine e formano aggregati di difficile smaltimento, che si accumulano a livello delle arterie, della cute, delle articolazioni ma anche del cervello, dove accelerano la produzione di placca amiloide. Il metabolismo del glucosio produce inoltre alti livelli di specie reattive dell’ossigeno (ROS) con effetto infiammatorio e pro-ossidante.
L’altro grande nemico è il glutine, del quale ho già ampiamente parlato in un post precedente. Non ripeto tutte le considerazioni già fatte in proposito, ma sottolineo che questa proteina ha un effetto proinfiammatorio anche a livello cerebrale. Il professor Marios Hadjivassiliou, uno dei ricercatori più importanti in questo campo, conclude in un articolo pubblicato sul Lancet : “Our data suggest that gluten sensitivity is common in patients with neurological disease of unknown cause and may have aetiological significance” (I nostri dati suggeriscono che la sensibilità al glutine è comune nei pazienti con malattia neurologica di origine sconosciuta e che potrebbe avere significato causale). In un lavoro più recente sottolinea che i disturbi neurologici possono essere presenti anche in assenza di manifestazioni gastrointestinali, tanto che arriva a considerare la sensibilità al glutine come una malattia neurologica. Del resto è un’osservazione molto comune la risoluzione di emicranie e cefalee con una dieta priva di glutine. David Perlmutter, un neurologo autore di numerosi bestsellers sull’argomento, spiega anche come la reazione immunitaria al glutine aumenti la produzione di mediatori infiammatori, tramite la stimolazione dell’enzima COX-2, oltre che di TNF alfa, una citochina che è costantemente elevata nelle malattie neurodegenerative.
Se a ciò si aggiunge il fatto che i derivati del grano hanno un indice glicemico più elevato dello zucchero raffinato e che spesso contengono residui di glifosato e altre tossine utilizzate nella coltivazione, si capisce come Perlmutter li consideri gli agenti scatenanti, nell’organismo in generale ma nel cervello in particolare, della “tempesta perfetta”.
Un altro nemico del cervello non è un alimento ma un prodotto metabolico, l’omocisteina, un aminoacido correlato ai processi di metilazione, un processo essenziale di detossificazione utilizzato dall’organismo ma anche alla base della produzione di neurotrasmettitori cerebrali. Quando il processo non funziona correttamente, nel sangue aumenta il livello di omocisteina, che è un noto fattore di rischio cardiovascolare ma è anche considerato un marcatore delle malattie neurodegenerative. L’omocisteina deriva dalla metionina, alla quale è stato tolto un gruppo metilico; in condizioni normali ad essa viene aggiunto un differente gruppo metilico e si forma S-adenosil-metionina (SAMe), un naturale stimolante cerebrale e antidepressivo. Se questo processo non avviene correttamente, per carenza dei cofattori della reazione che sono la vitamina B12, l’acido folico, la vitamina B6 e la betaina, l’omocisteina si accumula e provoca una serie di effetti tossici a vari livelli, sia diretti che legati al danno della microcircolazione. Si stima che un livello di omocisteina superiore a 11,9 mmol/L sia associato a un rischio di danno neuronale di tre volte più alto rispetto a un livello inferiore a 8,6. Benché il problema dell’insufficiente metilazione dell’omocisteina sia spesso legato a mutazioni nel gene che codifica per la MTHFR, l’enzima responsabile della trasformazione in SAMe, e sia quindi necessaria un’integrazione delle vitamine nella forma attiva perché siano efficaci, altre volte si tratta di carenza nell’apporto di questi nutrienti, per esempio nei vegetariani che non assumono vitamina B12, o al contrario in persone che non assumono sufficienti vegetali freschi e quindi acido folico.
Per quanto riguarda l’alcol, molti studi associano un consumo basso o moderato con un rischio inferiore di declino neurocognitivo, anche se non sono chiare le ragioni. Al contrario, l’etilismo, ossia il consumo di più di 60 grammi al giorno per gli uomini e 40 per le donne, lo aumenta, con molteplici meccanismi: un effetto neurotossico diretto dell’etanolo e del suo metabolita acetaldeide, un deficit di tiamina (vitamina B1), grande protettore neuronale, la possibile encefalopatia epatica in pazienti cirrotici, il danno cardiovascolare associato, la presenza di concomitanti abusi e di depressione.
Buone notizie per noi caffeinomani: il consumo di caffè non solo non incrementa il rischio, ma un uso moderato sembra ridurlo.
Veniamo ora ai grandi amici del cervello, cioè ai grassi, in particolare i trigliceridi a media catena, dal forte potere chetogenico. La dieta chetogenica si è dimostrata capace di ridurre l’accumulo di amiloide in modelli animali e di aumentare il glutatione mitocondriale nell’ippocampo, di ridurre i radicali liberi e di bloccare i processi di apoptosi (suicidio) delle cellule cerebrali. La dottoressa Mary Newport ha scritto un libro molto interessante raccontando la sua esperienza con il marito affetto da Alzheimer, del quale riuscì a rallentare notevolmente il decorso soprattutto grazie ad abbondanti supplementazioni di olio di cocco.
Sono inoltre fondamentali, ai fini di garantire la giusta fluidità delle membrane cellulari, anche gli acidi grassi polinsaturi omega tre, in particolare EPA e DHA. Pare che l’EPA abbia un effetto più funzionale, per esempio aumentando i livelli di serotonina e quindi il tono dell’umore, mentre il DHA sia più strutturale, tanto che la supplementazione in gravidanza è direttamente correlata al quoziente intellettivo del neonato.
Un’altra classe di grassi indispensabili per il cervello sono i fosfolipidi, componenti della guaina mielinica che protegge i nervi e facilita la trasmissione dei messaggi fra le cellule. I due principali fosfolipidi sono fosfatidilcolina e fosfatidilserina; essi migliorano l’umore e le prestazioni mentali ma soprattutto proteggono dal deterioramento cognitivo. Il neurotrasmettitore acetilcolina in particolare, fondamentale per il meccanismo della memoria (tanto che alcuni farmaci usati per la terapia dell’Alzheimer lavorano aumentandone la quantità), è un derivato della colina, di cui la fosfatidilcolina è la forma più biodisponibile. La fosfatidilcolina contribuisce anche ai processi di metilazione e a tenere bassi i livelli di omocisteina. Le fonti alimentari di fosfolipidi sono essenzialmente le uova e le frattaglie, specie fegato, rognone e cervello. Soprattutto per la fosfatidilserina, nel caso non si consumino organi animali Patrick Holford consiglia una supplementazione di 100-300 mg al giorno per un corretto apporto nutrizionale.
Parliamo infine del grande spauracchio, il temutissimo colesterolo. Un quinto del peso del cervello è costituito da colesterolo, che contiene ben il 20% della quantità totale presente nel corpo. Il colesterolo assolve a svariate funzioni nel sistema nervoso: è un componente delle membrane cellulari, alle quali assicura stabilità; fa parte della guaina mielinica dei nervi; è indispensabile alla formazione di nuove sinapsi fra i neuroni e in definitiva facilita la comunicazione e il funzionamento cellulare. È la materia prima di partenza per la sintesi degli ormoni steroidei e della vitamina D, anch’essa potente protettore cerebrale e i cui bassi livelli sono associati a rischio aumentato di declino cognitivo; inoltre, il colesterolo contiene i danni dei ROS nel cervello. Vari studi hanno evidenziato che livelli elevati di colesterolo totale in età avanzata si associano a maggiore longevità, mentre bassi livelli correlano ad aumentato rischio di depressione e disturbo bipolare. Non a caso, nonostante il fatto che le statine fossero state considerate potenzialmente protettive nei confronti dell’Alzheimer, gli studi più recenti non solo hanno messo in dubbio questa proprietà, ma hanno spesso osservato effetti sfavorevoli, anche per il blocco indotto sulla produzione del coenzima Q10, fondamentale per la funzione mitocondriale.
In ogni caso, il colesterolo ematico è prodotto per il 75-80% dal fegato e solo una quota è di origine alimentare; anzi, una dieta carente di colesterolo stimola la produzione dell’enzima HMG-CoA reduttasi (quello che viene inibito dalle statine) tramite il quale vengono utilizzati i carboidrati per sintetizzarlo. Sappiamo che i livelli considerati normali sono stati progressivamente abbassati nel tempo, ma in realtà sta emergendo con sempre maggiore evidenza che quelli ottimali per la salute e la longevità siano più vicini al vecchio limite che a quello nuovo. Nessuna paura quindi per il consumo di uova, che sono anzi un nutrimento ottimale per la salute del nostro cervello per l’abbondante presenza di colina.
Roberta Raffelli
Per approfondire consiglio:
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